venerdì 10 febbraio 2023

Un SACCO di cose.


Questa cosa te la devi davvero ricordare.
Anche se dubito che la dimenticherai mai nella tua vita.
Ma se questo ormai è un diario, allora, se, nel caso fosse, te lo rilleggerai è pure giusto che possa rileggere quello che è, non quello che ricordi di quello che era.
 

Eri in macchina che andavi alla tua festa di laurea, ha squillato il telefono, eri all'altezza del passante nord, poco dopo il Gemelli. Quella telefonata, in un modo o nell'altro, t'ha cambiato la vita.
Il giorno dopo, o forse due, ti sei ritrovato sul terrazzo di casa e guardavi i palazzi lontani, quelli che avevi visto due milioni di volte. Ti eri appena laureato, prima dei 25 anni.
"Quello che c'è qui lo so".

Quello che è successo è che, anche per quella telefonata, tu hai fatto le valigie e ti sei messo in testa che avresti voluto fare il pubblicitario.
Avevi già discusso la tesi sul più stronzo degli argomenti legati alla pubblicità solo per mettere piede nelle agenzie.

Hai preso il treno in due settimane, alle 6 di mattina ed è cominciata la corsa.
Una corsa frenetica, asfissiante, infinita.
Hai lasciato l'amore alle spalle. Ti sei fatto male.
Hai imparato, in quel modo, che eri capace di farti male, che se ti tappavi il naso, potevi andare avanti ed attaccarti solo al tuo sogno.
Così è stato da lì in avanti.
Da lì in avanti. Sempre.

Sei stato fortunato almeno 5 volte, di cui due, sei stato baciato davvero dalla vita.
Hai conosciuto almeno 3 ragazze che il mondo umano maschile avrebbe leccato in terra per avere, e tu, invece, semplicemente, andavi avanti.
Ti sei tappato la bocca, ti sei sventrato il fegato, spappolato lo stomaco, hai disidratato il cuore, hai morto il sorriso, quello che tutti conoscevano di te.

Hai imparato, solo adesso, che hai confuso la soddisfazione con la felicità.
E adesso so cazzi tua Diego, adesso so tutti cazzi tua.

Avevi trovato, tornando a casa, l'amore quello senza se e senza ma, l'amore luce, avevi aperto qualcosa di te che manco conoscevi, e una volta uscito fuori ti sentivi bello e pieno.
Sì, c'era la macchia ma tu eri sincero.
Sta di fatto che non sapendo niente, quella parte di te, l'hai ammazzata una seconda volta.
Senza pietà, con il tempo, l'hai mandata prima in coma, poi in riabilitazione e poi l'hai ficcata da qualche parte della tua pancia, nella speranza più ottusa, che il tempo potesse seppellirla.
Il lavoro, come sempre, la copriva, insieme al tempo.
Ma come con il tappeto, la polvere viene solo coperta, ed è sparita col cazzo.
Hai portato con te negli anni la disillusione come compagna, solo per andare avanti, giustificando con il percorso di crescita la possibilità di annullarsi completamente.

Torino fa schifo, non l'hai mai sopportata.
Dusseldorf se non esistesse sulla faccia della terra, non se ne accorgerebbe davvero nessuno.

Non hai fatto altro che resistere. Niente altro che resistere, per il buon nome ( e due) della crescita professionale.
Fingendo di non sentire che lo stomaco si ingrossava, come quando gonfi un palloncino, al cui interno c'è solo il vuoto.
E questo è diventato il tuo compagno di viaggio.

Sei stato nuovamente fortunato, ma questa volta meno sciocco nel riconoscere la rarità di questa incredibile possibilità, avevi imparato la rarità dell'amore, meglio la benedizione dei sentimenti, della leggerezza e della felicità pura che porta con se.
Hai tentato di tenerlo in piedi, con ogni possibile forza, d'animo e di nervi, col cuore pieno di ogni particella di gioia. 
Hai vissuto la paura e la schizofrenia, il cuore diceva prova, la testa diceva "non resterà mai".
Ti sei strappato il cuore dal petto e l'hai messo nelle tue mani, l'hai portato fin dove davvero sarebbe riuscito a battere, per mostrarsi voglioso e pulsante.
Non sei stato fortunato. Fa male. Ok.

Ma questo ha fatto casino. Ha smosso e aperto di nuovo.
E adesso succede che tutto sta uscendo fuori da te, non riesci più ad arginarlo, a tenerlo, s'è rotto il cazzo il mio stomaco, il mio cuore, come un fiume che se ne sbatte i coglioni degli argini, lui, loro due, hanno preso il sopravvento, e la testa è andata, stanca, sfinita, ha lavorato e protetto fino a quando gli è riuscito.

Sogno un abbraccio, il tuo.
Sogno di riuscire a sentire qualcosa di nuovo, non di nuovo inteso come nuovo, ma di sentire qualcosa, perchè a quanto pare "Diego lei non sente più niente, se ne accorge" (cit); "Diego è inutile che lei fa quello romano che tanto a noi chi c'ammazza. Diego lei sta male. Diego lei sta scappando da troppo tempo" "Diego lei ha un buco nello stomaco incredibile, c'è il vuoto in quel buco, mi capisce?"

E quindi sei qui, che tra una settimana passi dalla psicologia alla psichiatria, semplicemente perchè, questa volta, da solo non ce la fai.
Ti senti sconfitto. Non ti aspettavi questo da te, non ti aspettavi di essere così sciocco, hai sempre detto di essere terza persona di te stesso, di saperti vedere anche da fuori.
Bene, hai visto e sei rimasto in silenzio.
Ti sei lasciato far male da solo.
Non ti sei voluto bene per un cazzo.
E adesso devi combattere due battaglie insieme, credere che quel vuoto abbia solo un nome e che devi pure mandare le cose avanti quando quelle cose ti cercano perchè "se ne muoiono", come se invece io "me la sciallo", e cercare di capire da cosa, da anni, a quanto pare, scappi.

Ricordati che passi le giornate col pilota automatico, cercando qualche voce, ma poche, immaginandone a tratti una in particolare, che scalda, per poi scuotere la testa e spingere te stesso a guardare altrove, perchè è così, fa bene, ma fa male.

Ricordati che ogni volta che vedi mezza cosa bella, che quando leggi una pagina di un libro che pettina qualcosa del tuo stomaco, o quando ti viene in mente l'immagine di qualcosa che sembra farti bene, i tuoi occhi si gonfiano, se sei sul divano ti volti verso la finestra e guardi lo spicchio celeste del cielo, cerchi la fuga, come un uccello; quando sei a lavoro giri il collo verso il muro, ti copri con la mano e respiri piano (un respiro grande e uno più piccolo).

La paura di mettermi seduto davanti ad un dottore nuovo che forse mi prescriverà delle medicine, non per la schiena, non per la caviglia, non per che cazzo ne so, ma per il cervello.
Pensavo di essere più bravo, pensavo che certe cose non sarebbero mai state nel mio percorso, invece no.

Ti stai cacando sotto.
Di quello che uscirà parlando con questa persona.
Di quando dovrò aprire la scatoletta delle pillole.
Penserò che forse è questo il risultato di tutte le volte che guardavo il cielo infinito e mi sembrava di perdermi lì dentro, del fatto che anche in campo da mesi sento solo niente.

Ti senti un corpo col pilota automatico.
La sola cosa che mi aiuta e che mi coccola anche se non dovrebbe sono due occhi blu, che mi ricordano che dentro di me, per davvero, l'amore e la forza di poter sentire qualcosa c'è.

Sarai una persona migliore?
Ma che cazzo ne so.

Pensi spesso a papà.
A quando tu eri piccolo e lui tornava alle 8.
A casa "vecchia" a quando gli lanciavi con mamma le palline da tennis.
A lui che comunque è "papà torna tardi che lavora" e mamma arriva dopo pranzo.
A papà che però le cose si dicono a mamma.
A me che non lego con i maschi, che so aprirmi solo con le ragazze.
A me che ho già un senso di fatica perchè il nuovo dottore è maschio.

L'angolo del mio divano è un guscio.
Sotto al divano c'è un tappeto che è stato un prato, il soffitto è stato un cielo pieno di stelle e di desideri. Quando ero lì che li guardavo sdraiato pensavo che se tutto fosse rimasto in quel modo, io non avrei davvero più mai chiesto niente di più. Mai mai lo giuro.

Adesso misà che mi ci sdraio di nuovo e se riesco a fare la magia per cinque minuti e una stella si sposta io la mano la tendo, perchè a me Paolo e Jesus Meme, stavolta, una mano dall'altra parte ci serve.

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