mercoledì 16 novembre 2022

Un orto e una porta.

 

Da che ricordo, ho quasi sempre visto mio nonno tornare dall'orto ogni volta che andavo a trovarlo. Dopo una carriera da finanziere diceva di trovare sempre la voglia di alzarsi, ogni mattina presto, e andare a "governare" le bestie, curare gli ortaggi, darsi da fare in qualcosa.
Lo ha sempre fatto, fino a quasi la fine dei suoi giorni. Ai miei occhi sembrava maniacale, perchè quello che, per me, avrebbe dovuto essere un passatempo, per lui non sembrava esserlo affatto.

Non passava un giorno che lui non andasse, anche due volte al giorno, dividendo i compiti.
Ogni volta che tornava sembrava sempre che non avesse mai finito di fare qualcosa, o che comunque ci fossero delle altre cose (tante) ancora da fare.

Ero piccolo, urbano/cittadino/viziato e mezzo stronzo quando una mattina mi chiese se avessi voluto andare con lui nel pomeriggio (e non di mattina presto) per sistemare il "capanno".
Ad oggi mi chiedo ancora cosa fosse, visto che non andai, anche se dissi "sì sì va bene".
Era una persona molto schietta, infatti una volta tornato me lo rinfacciò subito, anche se non avevo nemmeno dieci anni. Forse per lui un uomo si vedeva, da subito, anche da queste cose.
Pensare che ora pagherei per tornare indietro e dargli una mano.
Anche solo per scoprire che cazzo sia sto capanno maledetto.

Il punto non è la mia stronzaggine, quanto l'incredibile dedizione quotidiana rispetto alla cura dell'orto, che forse per dimensioni era più un campo, le chiama "forme nove", 
"Patrò" urlava mia nonna dalla cucina, con una strana abbreviazione di "patrone", una forma (spero) dolce di "padrone", "dove vai?" continuava urlando, "Vò alle forme nove, torno a cena" e chiudeva la porta.
Ogni giorno, anche il sabato, anche la domenica, litigava con mia nonna a Pasqua, perchè lui voleva andare anche quella mattina, anche per Natale era così.
Andava, curava, addomesticava, forse gingillava, di sicuro seminava, con costanza, dedizione, senza ma chiedersi il senso o perchè stesse facendo quelle cose, ma solo felice di portare qualche volta quattro uova fresche in cucina e porgerle a mia nonna
"Tiè, hanno covato l'ovi".
Erano uova piccole, di un bianco sporco di terra umida, perchè raccolte da lì.
Vere, sane, sincere.
Una volta rovinò l'infiorata del paese che passava lungo la loro strada di casa perchè tornando dalle forme nove schiacciò con le ruote della macchina, una 127 verde oliva, tutti i fiori preparati con cura dalle suore e dalle signore del quartiere, per parcheggiare.
Mia nonna, fosse viva, ancora si vergognerebbe. Io scoppio a ridere ogni volta che ci penso, anche 34 anni, circa, dopo. Ricordando le urla di mia nonna e l'incuranza grezza e decisa di un uomo a cui davvero non importava più niente di quello che potessero pensare le persone, doveva parcheggiare, cosa avrebbe mai potuto fare?

Da qualche ora il ricordo di mio nonno, Amelio, che torna ogni giorno dal campo, e della sua dedizione mi torna in mente, perchè oggi è stata una giornata che difficilmente io dimenticherò (rendendo questo post probabilmente uno tra i più importanti della mia vita, fino ad oggi), perchè questo mercoledì ha avuto due facce ma un solo insegnamento, o almeno a me sta lasciando un solo grande pensiero in testa.
Ho iniziato la giornata perdendo l'amore, e non erano nemmeno le nove.
Ho rigato e sentito rigare le guance con lacrime pesanti e lontane, avendo solo la possibilità di immaginare gli occhi che tanto amo ancora versarle. Le lacrime però non sono bastate a fermare il resto, i crampi, e nemmeno la voce del cuore c'è riuscita (m'ha voltato le spalle pure lui, al quale ho sempre creduto, e che forse non so se gli crederò più) e mi sono ritrovato tutta la giornata davanti; piena, infinita e silenziosa.
L'ho finita firmando un contratto nuovo di lavoro, con una posizione che mai quando ho cominciato a lavorare avrei immaginato. Guadagnerò un sacco di soldi, mi vizierò in qualcosa, anche se tanto a me bastano un paio di jeans larghi e una felpa col cappuccio per sentirmi che sono sempre me stesso e sto bene così.
Avrebbe dovuto essere, grazie alla fine della giornata, il più bel momento da 13 anni a questa parte.
Sì, l'ho fatto un sorriso, perchè il mio corpo se lo merita, il mio fegato se lo merita, il mio cervello e la sue idee se lo meritano, insieme alla pazienza, la continuità e la determinazione che ho sempre avuto.

Solo che.

Solo che il pensiero è andato subito a mio nonno, alla costanza e alle forme nove, e al suo modo di seminare, a come quel campo di terra sia una maledetta metafora.
Quel campo dava i frutti, le uova, perchè ogni giorno lui era lì e per quello si impegnava.
Lui però poi le uova aveva qualcuno a cui portarle, e zitto zitto, burbero burbero, forse lo sapeva pure lui che il senso era quello, prendersi cura di se stesso ma anche di mia nonna.
Seminare il campo era seminare la terra sul quale il loro amore viveva.

Io?
Ho seminato per me, per me e basta, e sempre solo da una parte.
E il destino è infame ma giusto, perchè dove tu semini bene, lui, ti ripaga, dove invece non semini, o semini poco, oppure se in qualche modo ha deciso che per te c'è quello e basta, non ti da persone a cui portare le uova.
E anche magari quando hai davvero iniziato a seminare con pazienza, tenacia, amore e dedizione senza mai sentirne il peso, il destino quella gioia non te la regala.
Anche se pregavi piangendo, anche se piangevi pregando volendo dimostrare a qualcuno da qualche parte in paradiso che meritavi fortuna, attenzione, un finale diverso, niente.

E il destino vuole che nello stesso giorno capisci dove puoi aspettarti un sorriso e no.
E la cosa peggiore è che non ti ci incazzi manco più. Fa solo come un sasso che casca nello stagno, un suono sordo che si perde in profondità su una pila ormai piena di sabbia e alghe.




Avrei potuto scrivere tutto anche semplicemente così:

"Ciao felicità, ti ho riconosciuta e sentita davvero dentro di me, grazie di essere passata".

Ma sì sa che io sono fatto a modo mio.

Ricordatelo. 



Nessun commento: