Sono passati degli anni da quando ho letto uno dei libri che più mi è rimasto impresso, era "Storia di un corpo" di Pennac. Ricordo di averlo finito sul treno tornando a casa (una delle centomila volte che torno a casa) e che mi commosse a tal punto che ho dovuto alzarmi e fingere di dover andare a pisciare.
Anni dopo, come un rigurgito, quel libro risale dallo stomaco ma per un motivo che ha a che vedere poco con la lettura. Sale come sale lava dal culo del vulcano ed esce dal buco.
Quanta eleganza.
Arriva in superficie quasi sempre nello stesso momento. Un momento che ho scoperto, meglio riscoperto dopo anni, e che ogni volta mi fa sentire pieno, vivo, eccitato e frustrato.
Questa centrifuga di emozioni mi confonde ogni volta che gioco a tennis.
Mi trovo sul campo, inizio a giocare e il mondo intorno, qualunque cosa ci sia stata prima, o ci sarà dopo, in quella bolla non entra.
La mia rabbia, l'amore, l'attenzione, la fantasia, la paura e il coraggio sono tutti su di lei, quella pelosa infame che bacia le corde creando un suono sublime, gialla, la pallina.
In quel momento vivo dei suoi rimbalzi, il mio cuore rincorre le pulsazioni come io rincorro lei a destra e sinistra. Entrmabi non saremo mai davvero contenti fin tanto che io non la manderò dove dico io, e lei, non farà il secondo rimbalzo a terra, lasciando impietrito l'avversario a guardarla.
Sia quando succede, sia quando ingoio il rospo, c'è comunque questo pensiero che fa il solletico alla mia concentrazione. Il mio corpo, il mio corpo che giorno dopo giorno, che io combatta oppure no, non sarà più lo stesso, non potrà più correre così tanto, non potrà più lottare così tanto.
Potrò allenarlo, volergli bene, portarlo a fare i massaggi, farlo riposare, non fumare, mangiare bene, viziarlo, ma su di lui, prima o poi (speriamo il poi più lontano possibile) non ne avrà più di correre e rincorrere.
Penso che sarà dura non sentire più la sensazione dei polmoni che cercano particelle d'ossigeno lì intorno. La voglia di avere, anche, le branchie, o un terzo polmone in tasca.
Sarà dura pensare di non sentire il dolore dei muscoli stanchi e allenati la sera quando mi siedo sul divano. Quel formicolio strano, come quel rumore strano che fa il motore spento di una macchina, che senti quando la parcheggi nel silenzio del garage. Un suono metallico, simile a tante piccole scintille, tante lucciole che schioppettano sotto al cofano.
Così le braccia dopo mille dritti e rovesci, così le gambe dopo cinquecento ripetute.
Il sudore, il suo sapore acre, il bruciore quando cade dalle sopracciglia sugli occhi, e combatti per tenerli aperti, perchè succede sempre quando devi chiudere il punto, o arriva la "bordata" e non puoi permetterti di togliere lo sguardo dalla palla. Non puoi perdere di vista l'obbiettivo.
Mancherà alla mia testa ripensare all'allenamento, a cosa è andato bene, cosa male, osservare i miei piedi pieni di calli e duroni. Accarezzarli e sentire come la pelle si è indurita per via delle scaroe, dei calzini ormai usurati. Notare come dopotutto la pelle comunque resti liscia, viva e libera in un certo senso.
In quel momento sarò ancora io?
Mangiare avrà un senso diverso, guardare gli atleti in tv sarà diverso. Restare a bocca aperta e scuotere la testa davanti all'elasticità, alla potenza, alla perfetta coordinazione che il corpo umano riesce a raggiungere ed esprimere.
Osservare la meraviglia di certe giocate non è così affascinante se quella spinta, quella grinta, quella fantasia, poi nel tuo piccolo, non la porti in campo. Questo almeno per me.
La prendo, prendiamola, come una partita a tennis.
Io contro la vecchiaia, io contro il divenire.
Sì, perderò, è inevitabile, ma un'allenatore molto molto bravo ha detto, vincere è fondamentale, ma se vuoi puoi anche scegliere come perdere.
Voglio perdere lottando, lottando su ogni rimbalzo, ogni smorzata (che odio) ogni attacco a rete (che possiamo vedere come piccole aggressioni, chiamiamole sorprese). Voglio perdere giocandomela senza il "braccino del tennista", senza paura di sbagliare, o imparare ad ogni errore cercando di non rifarlo. Non vorrei concedere nessun break, che se li guadagni i suoi punti questo tempo.
Giocherà sfinendomi, senza cercare il punto veloce, la metterà sulla pazienza, perchè ovviamente ne avrà più di me. Cercherò di giocare sui miei nervi, senza sbracciare, senza lasciarmi scappare via il colpo, senza spolverare le linee.
E sarà fastidioso comunque, vincere quel punto, quel game, e quel set osservandolo dall'altra parte del campo, che mi guarda compiacente, con un ghigno sul volto che non suda, che non fatica, perchè tra i due chi ci rimette di più di sicuro non è lui.
Il punto è che, credo, ogni avversario trova sempre molto più gusto a giocare con chi si lamenta poco e corre in mezzo al campo, contro chi comunque concede poco, pochissimo, perchè sono quelli gli avversari che poi ricordi, quelli che porti con te o dentro di te.
A nessuno, pur essendo più forte, piace vincere facile.
Ed io? Io mi guarderò colpire la palla, mi guarderò cambiare polsini, calzini, completini e racchette. Col tempo (appunto) sempre meno appariscenti; la vecchiaia chiama austerità, passando quindi dai colori acidi e sfacciati (che comunque non metto già adesso. Certe cose te le devi mettere sei fai le buche per terra secondo me) a quelli più modesti e, diciamo, solidi.
Vedrò il mio corpo perdere intensità, vivrò la distonia mentale in prima persona: la testa dice vai, la gamba dice stai. Cazzo, penserò.
Adesso che però sono ancora lontano assai da quel me che gioca il sabato mattina con una polo aiutata dallo smanicato di felpa o di maglia (come i signori che osservo adesso e quasi derido ma invidio perchè sono ancora lì che giocano) continuo a pensare che fin quando mi accorgerò di essere capace di seguire una palla e mandarla con il dritto dove vorrei che andasse, sono ancora tutto io, quel me che mi piace essere e userò questo tempo per fare pace col fatto che alla fine la mia racchetta dovrà trovare un braccio diverso per menare quella maledetta pallina. Trioverò qualcuno, più giovane, a cui rompere i coglioni con i miei consigli sinceri, o magari (quanto lo vorrei) qualcuno che mi chieda come mai il suo dritto non ha spinta e il suo rovescio incrociato non ha peso. E allora sarà, forse, come ricominciare da capo, con un corpo diverso
Alla fine, forse, trasmettere una passione a qualcuno e restare nella sua voglia di giocare non è un modo per ingannare la nostra amica morte?
Speriamo.
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