lunedì 4 maggio 2020

19 (che non è il cugino di 11 di Stranger Things)



Il mondo si è fermato per qualche mese e in questo immobilismo c'erano un milione di possibilità.
Di tutte queste, personalmente, non ne ho sfruttata nemmeno una.
Me ne dolgo, nella speranza che in ognuno di voi, quei pochi che leggono questo coso, possano pensare la stessa cosa e logorarsi il fegato. Come me.

Non che sia finito, purtroppo o per fortuna, ma già la maggior parte delle persone parla e scrive come se domani fosse carnevale quando, alla fine, la sola cosa che ci si possa permettere, del carnevale, è la maschera. Ma questo pare contare poco.

Sta vincendo il concetto della ritrovata libertà.
Quando forse, invece che ritrovarla, secondo me, la perdiamo.
Perchè proprio in questo momento siamo stati liberi di rifugiarci in noi stessi e pensare a tutto quello che, con la frenesia di ogni giorno, lasciamo semplicemente indietro.

Siamo tutti stati vittime di ogni genere di tenerezza. Dai vicini, dai conoscenti, da chi non ci conosceva affatto e dalla pubblicità. 
Cazzo ci volevano bene tutti. E volevamo bene a tutti.
Pure alle teste di cazzo.
Tutti non hanno fatto altro che ricordarci chi siamo, cosa siamo, che siamo uguali, e che tutto alla fine sarebbe andato bene, senza dimenticare di aver bisogno di un sapone o un dado per il pollo.
Ne sentivamo il bisogno? 
Dico, dell'amore del vicino con il quale mai parliamo e che al massimo odiamo per la musica di merda che mette la sera, così come lui odia noi per lo stesso motivo, ne sentivamo tutto sto bisogno?


Ci serviva l'amore degli sconosciuti, che, come tali sono sempre stati nulla per noi?
Abbiamo mai raccolto qualcosa da terra che non fosse caduto dalle nostre tasche?
Per renderlo ad uno, appunto sconosciuto.
Abbiamo mai tenuto la porta aperta, al tizio visto con la coda dell'occhio quando entriamo in un posto qualunque?
Davvero? 
Non proviamo tutti a prendere l'ascensore da soli, sperando che la porta si chiuda con un tempismo perfetto da far giudicare la nostra assenza di aiuto una totale casualità, senza dover per forza, in trenta centimetri quadrati, dire delle banalità per due piani?

Da dove esce tutta questa compassione?
Tutto sto amore, ma dove stava prima?
Eravamo così davvero tutti uniti? Così davvero tutti partigiani? Così tutti comunisti il primo Maggio, o forse il fatto di stare rinchiusi ha sollevato il solo tema utile della giornata, impossibilitati a pensare alla gita, alle fave col pecorino, al ponte, a tutto, tranne al motivo per il quale tutto quello che succedeva era possibile.

La cosa sconcertante è che in tutto questo c'è solo un minimo comune denominatore, la sofferenza.
Stare male unisce.
È brutto, tanto quanto quelli che dicono di essere innamorati di qualcuno solo quando quel qualcuno lo fa soffrire. Quando l'amore dovrebbe essere tutta un'altra maledetta cosa.
Non è quanto l'effetto salato sia rilevante per noi a dirci quanto potrebbe essere dolce il comportamento contrario. Bilance rotte, ecco cosa siamo.

Fosse stato il contrario sarebbe stato così?
L'esempio tremendo è quello delle aziende che decidono di vendere le loro azioni al pubblico. Quando un'azienda va benissimo, col cazzo che condivide i suoi capitali con gli altri. Quando le cose invece sembrano andare in una direzione diversa, allora, si cerca compagnia, aiuto, si cerca di condividere il peggio.
Siamo forse, tutti noi, delle minuscole aziende?
Quante volte se siamo felici cerchiamo gli altri? Per regalarne un pochina
Una volta su dieci? Mai? Più probabile.
La felicità è troppo rara e preziosa per dividerla con altri.
Quindi il dolore avvicina, la disgrazia avvicina, il bisogno avvicina.
Non è il bene.
Se sto bene, amico mio n'te cerco.


Il mantra che ne segue è che siamo stati vicini, che ce la stiamo facendo insieme, che faremo ripartire tutto insieme.
Tra un anno ci daremo le pacche sulle spalle, mentre su Rai 3 Report ci mostrerà lo schifo economico che c'è stato dietro, di come il nostro governo abbia più o meno fatto bene, e ci ritroveremo nuovamente a scuotere la testa ripetendo che ogni volta che si pensa di aver toccato il fondo, c'è sempre modo per raschiare ancora di più.

E non ci potremmo lamentare nemmeno con il nostro vicino di balcone, il nostro miglior amico di quarantena, al quale, quando tutto sarà un pochino più normale, non rivolgeremo più che un pallido cordiale saluto.
Perchè è questo che accadrà, lo sapete tutti, sarà tutto tremendamente uguale.
Se Dio vuole.

Ci suoneremo ai semafori, quando al verde quello davanti non parte subito. 
Negli stadi ci pesteremo. 
Alle poste ce la prenderemo con chiunque dei disservizi, e tra le mille lamentele finiremo per dire che si stava meglio a casa, perchè ci ricorderemo che in fondo si sta meglio senza troppa gente intorno.
E non è pessimismo, è la semplice verità.
La verità di un mondo che corre, che fa un casino tremendo e che per una volta, anche se nel modo peggiore, ci ha dato quel briciolo di silenzio, e noi abbiamo fatto di tutto per renderlo cretino, cantando su un balcone.

Cantando cosa? L'uguaglianza? La speranza?
Cantando, per far passare il tempo.
Appunto, farlo passare, questo è, ed era il problema.
L'incapacità che abbiamo maturato di non saper stare senza fare niente.
Non saper reggere il peso del semplice tempo che passa.
Affrontare tutte le conseguenze che questo comporta, dall'annoiarsi a morte fino alle riflessioni su noi stessi che questo silenzio ci spinge a fare.

Il mondo sembra felice perchè ha scoperto che l'home office funziona davvero.
Una delle più grandi figure del marketing mondiale ha detto, e scritto: 
"non vedo l'ora di tornare in ufficio per lavorare di meno"
ecco, passare il tempo lavorando, tutto quel tempo, in un posto che non sia l'ufficio non poteva, almeno su di me, che risvegliare alcuni pensieri.
Forse essere sulla mia sedia di casa, mia per davvero, e non su quella dell'ufficio, che non è mia e che prima o poi diventerà di qualcuno diverso e nuovo, mi ha portato a vedere il tempo che passa e quanto di questo tempo, almeno io, assecondo un comportamento volto ad un momentaneo piacere, del tutto inconsistente, vuoto, e intermittente.
Un falegname, forse, trova maggiore gratificazione nel costruire un tavolo su cui una famiglia mangia, cresce, si confronta e vive.

Non è il senso del lavoro specifico, è più una visione sul futuro di quello che stai facendo che il silenzio ha messo in evidenza.
O meglio, forse peggio, proprio il senso della propria presenza sulla terra. 
In un momento in cui ogni giorno il bollettino ci diceva che qualcuno, tanti, non erano più parte della festa.
Ecco è proprio per questo rapporto mai così diretto e vicino con la morte che forse la vita dovrebbe avere maggior senso. Più compiuto per certi versi.
Meno frenetico, più semplice.
La domanda dalla quale non esco bene però è: riuscirai mai davvero a cambiare quello che sei, per qualcosa che ti rende, forse, migliore, ma meno combattivo?

Essere combattivi, questo è quello che ci sta insegnando, almeno a noi degli anni '80, il mondo.
Rincorrere o correre verso un sogno.
Vivere di quel sogno.
Crepare, eventualmente, per quel sogno.
"Until it pays you back". Like like like.
Peggio: avere per forza un sogno.

E forse è giusto, ma anche strano, che non vediamo l'ora di rientrare in questo circo, forse perchè è un modo, il solo modo, che abbiamo per assecondare le nostre illusioni, soddisfare i nostri piaceri, realizzare noi stessi o soffocare tutti i nostri pensieri più intimi.

La sola cosa che veramente sono felice di perdere, lasciando questo momento è la sagra della continua banalità.
Vivendo di comunicazione è stato, è, e sarà una tortura che chissà ancora per quanto ancora andrà avanti.
La fase 1 era la fase del vogliamoci bene e siamo uniti.
La fase 2 sarà ripartiamo e facciamolo insieme (sia mai che lo fai per cazzi tuoi).
La fase 3, spero sarà, tornate a scannarvi come prima che adesso è tutto passato.

Uno sproloquio di stronzate dal sapore agrodolce senza alcun senso, dove la retorica è stata anche osannata a grande verità, dove lo scopo era diventato: facciamo commuovere tutti.
Essere vicini alla gente, l'empatia, oggi è fargli capire che soffriamo insieme, che abbiamo anche noi (cioè chi ti parla) un cuore.
Cuore mai visto prima d'ora ovviamente.
Ma non è proprio questo il bello?
Fare finta, di stare bene, di stare male.
E forse la vita ci ha voluto giocare sto scherzetto.
Sarà forse una stronzata ma di solito quando ci diciamo di fingere parliamo sempre di mettere una maschera.

E alla fine, adesso, la dobbiamo mettere per forza; noi crediamo sia per proteggerci, e invece forse è solo per svelarci un pochino per quello che siamo.












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