lunedì 23 settembre 2019

Non Fibonacci.



Secoli, forse serviti, forse meno.
Sta di fatto che mio caro blog, oggi ci raccontiamo qualcosa che forse non avremmo mai davvero immaginato.

Ci raccontiamo di me e di te.
Di alcune sere bellissime passate io ad immaginare e tu a lasciarti riempire di belle parole e riflessioni, di cose sceme, senza senso e alcune che forse, in qualche modo, per me e per qualcuno avevano un senso.

Il più delle volte negli ultimi anni è stato non tanto un pensiero singolo a muovere le mie dita, ad accendere quella scintilla nella pancia e costringermi, e che bella costrizione sentire quella morsa viva e pulsante, e puntare le dita contro i tasti e vedere che tu, da completamente bianco ti chiazzavi di nero. Ti riempivi di tracce di me, tracce di quello che sudavo fuori, del tutto incapace di tenerlo dentro.
Esattamente come oggi, dopo anni.
Come se in fondo, prima di questo momento, non fosse successo davvero nulla che mi scalciasse qui davanti a scrivere, o forse a confrontarmi con me stesso.
A scavare, con la vanga, dentro quel piatto cemento che spesso io, come tanti nel mondo, sappiamo creare nella pancia per coprire tutto quello che vogliamo far tacere, spegnere, far morire, o semplicemente smettere di vivere, perchè parte di una vita che ad un certo punto, devi solo pensare come un sogno, bello o brutto che sia.

Ed è proprio per quello che adesso, più che mai, sono qui pronto a spogliarmi.
E non sai che voglia che ho.

Perchè mai ho usato la prima persona come ora, e non so nemmeno come potrei riuscire a scrivere in terza, o usare un modo di scrivere che porti al generale tutto quello che sento, per farlo diventare di tutti, e di nessuno.
Ma stavolta, secondo me, è tutto così folle, che non sono davvero capace di astrarlo.
Non sono capace di raccontarlo come se non fosse la mia la pelle sulla quale questo sale fino si poggia.
Fortunatamente le ferite sembrano rimarginate, ma il sale sulla pelle, non ci stanno cazzi, comunque se proprio non brucia, almeno pizzica.
E io stasera ho tanta voglia di grattarmi e di non fare come sempre, che penso tutto e tutto mi lascio scorrere, come se non fossi io la persona che poi ci pensa e ripensa, come se non fossero i miei gli occhi che cambiano colore.
Come se non fossero mie le braccia che trascinano piccoli e grandi pesi emotivi.

Quindi grattiamoci e raccontiamo.
Raccontiamolo in prima persona, ad una persona.
Mai usare nomi.
Raccontiamolo quest sera, a questa persona, che forse mai leggerà questa pagina.
Che forse non ci legge più da giorni, anni, secoli, perchè di cose belle bellissime ne ha da vivere (ed è meraviglioso che sia così) e quindi perchè mai voltarsi di tanto in tanto, nel buono?. Perchè mai riscaldare la pasta della sera prima, se in frigo o in forno ci sta tanto di più fresco e buono da assaporare con gli occhi e gustare con tutte le papille del palato.
E come dargli torto, a questa persona?

Eppure voglio dirgli che, a distanza di tempo, senza che nemmeno me la sono andata a cercare, la verità, che come uno scemo qualche volta andavo cercando osservando con il naso in su le nuvole passeggere, come pioggia mi è caduta dritta in faccia.
Ma più che pioggia è scesa come grandine.
Ha fatto rumore, ha bucato un pochino, ha fatto del mio tappo un colino per la pasta, e quello che stava tappando con perfetta semplicità e con serenità, è uscito.

Le domande, quelle più semplici, hanno trovato risposta.
E anche se non erano domande di matematica la risposta è arrivata e si è manifestata a me con una sequenza di numeri, nemmeno fosse quella di fibonacci.
Con semplicità, mi è apparsa davanti agli occhi, così, sfacciata e incosciente, uno splash:
22-09-2012.

Da quel momento pancia e mente hanno iniziato prima a fare a cazzotti fortissimo, come due che si amano tantissimo ma che si sono odiati in maniera viscerale per secoli.
Se le sono date così tante fino a stringersi così forte per dirsi sussurrando che si vogliono bene da morire, che si sono mancati. Si sono detti che era stata davvero una guerra sì giusta, ma a saperlo, davvero del tutto inutile.


Pancia perdeva lacrime nemmeno avesse quelle di tutto il mare.
Ripeteva a singhiozzo "ma io amavo, giuro che io amavo".

Mente scuoteva la testa e più che fare la maestrina a iniziato a fare la nonna buona e non faceva altro che rispondere "sì lo so, ma non era strano? Non era tutto così strano?".

Da quel momento è stato un monologo di pancia, in cui mente ha solo ascoltato senza giudicare, perchè anche lei, mente ha imparato che a volte in una storia o di una storia, senza volerlo, vediamo solo quello che vogliamo vedere, ascoltiamo solo quello che vogliamo ascoltare.

E allora è stata la danza dei ricordi che prendono piede.
Ricordi intensi e meravigliosi che in un niente sono diventati una mezza specie di carta straccia. Una finction in cui solo uno dei due interpreti può davvero dire "io, cazzo, ero lì".
In questo non c'è rimpianto.
La frase dei poveracci, che stasera, è anche mia, dice: chi ama non perde mai.

Ok facciamo che non ho perso.

Eppure, ho sacrificato col sorriso momenti per me importanti.
La festa di quello che potrebbe essere mio fratello. Mancata per una delicatezza nei tuoi confronti. Perchè lì c'era qualcuno che avrebbe potuto infastidirti, infastidirci.
E io volevo solo andasse, per una volta, cazzo, bene.
Che andasse dove volevo e dove speravo.

Eppure ho trascorso almeno 3-4 conti alla rovescia da solo, a capodanno, voltandomi cercando le guance dei miei amici, quando l'incontro più voluto era quello delle tue labbra.

Eppure io l'ho davvero sognata una vacanza con te.
Tu con la tua macchina fotografica, e io pieno solo di te.
Giuro che ero sincero e quello volevo.
Tanto sincero quando, boh, non so come dirlo, usiamo la poesia? 
"Sono il buffone della sorte"...?

Ho ascoltato le tue giornate al telefono, la sera, perchè eravamo lontani.
Ma sempre solo fino al momento in cui arrivavi davanti al cancello di casa.
Quello era il muro, quello era il limite.
Un secondo prima, eri mia, un decimo di secondo dopo, era il vuoto. 
La risposta? Sì, ma solo la mattina seguente, dalla macchina.

Ho mangiato a morsi grandi il mio fegato accusato di non trasmettere sicurezza.
Ti prego, se leggi, prova a volermi bene per davvero quando ti ricordi il più famoso dei
"non mi fai sentire abbastanza".
E io che ce la mettevo tutta, e io che comunque per qualche motivo non colmavo mai quel vuoto, non chiudevo quel millimetro.
Ero sempre indietro in qualcosa.
Ero sempre incapace in qualcosa.
Ero sempre assente in qualcosa.
E più provavo a stare attento e più comunque qualcosa di microscopico usciva sempre fuori.

Alto mantenimento. Io sono una AM.
Ti prego. Ricordatelo quando me lo dicevi.
E io che accettai la sfida certo di saper portare a casa questa sfida.

Abbiamo sorriso, con te che mi dicevi "non lo senti come ridiamo, ma che altro ti serve sapere?".
Io che penaavo "Dio quanto ha ragione".
Io che ti guardavo e zitto zitto dentro la mia pancia diventavo un Trudi.
"Sposami", di getto, sul mio letto. I tuoi occhi che diventano enormi.
"Sette lettere, l'hai detto" e quasi ti veniva da piangere.
Sì è vero, era scemo e incosciente ma solo Dio sa quanto l'intenzione era quella.
E io dentro ero semplicemente colpevole di seguire un sogno ( e so che forse è la mia piccola scema differenza tra te e me) ma alla luce dei numeri, Dio ringrazi quel sogno che alla fine lontani ci ha portato. 
Ma io ero puro dentro di me.
Ero pulito. Stupido, stronzo, ambizioso, sì, ma cazzo ero pulito.
Tu? Tu no.

Sono passati anni, in cui ogni cosa prende la sua importanza.
Più che prende, in questo caso perde.
Alla fine come tutti ti tieni il buono.
Guardi al bello per imparare.
Per credere che l'amore è così.
Amore è fatto così.
Arriva fa il casino, ti sconquassa, ti sfascia la vita, lascia un casino tremendo, beve tutto quello che c'è nel bar, e poi (il più delle volte tranne una) lascia il conto da pagare.

Ti ritrovi con la sbornia, la voglia di vomitare e qualche ricordo che ti fa venire una ruga strana, quella che poi chiamiamo esperienza.

Ora ne sono quasi pieno. A guardarle adesso saprei dirti quando e come mi sono venute.
Prima erano leggere, le storie prima te erano state belle, intense, importanti.
Tu hai semplicemente ridefinito uno standard.
Mi hai aiutato, tuo malgrado, ad uscire da un cubo.
Te lo ricordi quello che hai fatto per me?
Ed è così bello pensare a quello che sei stata in grado di fare, che alla luce di fibonacci mi chiedo, allora è per questo che qualcuno ti ha messa davanti a me su questa terra?
Cioè qualcuno ti ha mandata non perchè fossi il terminale ultimo, ma perchè fossi quella in grado di farmi credere che anche una candela spenta possa riaccendersi.

Ero il ragazzo difettoso.
Ero due persone, due cugini. Uno meraviglioso e uno indisciplinato.
Ero l'ordine dell'universo.

Anche in questo momento in cui il mio viso ha mille espressioni impossibili da decifrare, come le maledette palline di inside Out, io non riesco a pensare che dopo tutto, io non riesco a non volerti bene.
Il bene sano di chi con coscienza, pazienza e purezza, ti ha amata profondamente, radicalmente, visceralmente.
Chi dice di aver amato, così lo dice.
E alla fine è così bello amare fino al midollo che quasi sticazzi di tutto il resto.

Sì, sei completamente fottuta nel cervello.
Mai il soprannome che per sempre io terrò per te, è stato più appropriato: Pacco.

Si dice per le cose che deludono.
Ahime in quello che ho saputo, sì, mi hai deluso.
Anche se una parte di me ti attribuisce il dono che si riconosce al genio,
o al migliore dei gran figli di puttana.
Sta di fatto che è pura magia, e sì, ne sono rimasto incantato, ero nel pieno dell'incantesimo, "m'hai rintontolito de bucie" (come dice la canzone), e nella mia sciocca innocenza, in questi ultimi due giorni passo momenti in silenzio in cui sorrido davanti al genio ed altri dove lo perdo quello stesso sorriso.
Perchè non so più se tutto quello che ho vissuto è vero.
Se i tuoi ti amo, erano veri.
Se le tue lacrime quando andavo via, erano vere.
Se il tuo "sto lavorando su di me" era vero.

Ahime, devo togliere il "se", perchè la cifra non fibonacci, lascia poche poche speranze.
Diciamo nessuna.

E tu che impazzivi perchè "tu hai un sacco di amiche, ma ti sembra normale?".
Col sorriso sulle labbra: l'anima de li mortacci tua!

Quando ho saputo che sei diventata mamma, sappilo, in cuor mio ero felice.
Non sapevo tutta la verità, ma per certo sapevo quanto saresti voluta diventare una mamma.
Sì, non ho mangiato quasi per tre giorni, non mi nascondo dietro un dito.
Mi sono sentito, solo, abbandonato, lasciato indietro, centrato colpito, picchiato, inutile, vecchio, sgusciato, piccolo, tanto piccolo, un poppante non in grado di prendere delle responsabilità. Poi la mia vita è ripresa, come le mie corse. Pioggia, sole, nuvole, acquazzoni, sole forte, vento foglie che cambiano colore, il vino e la birra, i film, la Roma, il sorriso degli amici, l'acqua del fiume davanti casa, le magliette a manica corta, la giacca a vento, il piumone. La vita, mi ha portato a spasso. Ho imparato, non scrivevo.

Tante cose sono successe.
Belle e brutte.
Bellissime e brutte vaffanculo di merda proprio brutte.

E sono andato avanti. Comunque nel cuore felice per te, con F sincera e maiuscola.

Spesso dicevi: "ma quando tocca a me quella felicità?"
Era una bella domanda, era quasi una coltellata sentirsela dire, perchè ovviamente mi sentivo di non dartela, ma guardavo al bello della ricerca. Alla positività che sapevo essere nel tuo sorriso.
Vedi le cose che mai ti ho detto, per vergogna.
Vedi le cose che comunque mi hai trasmesso.
Io spugna di te.
Nel bene e nel male.
Nel male e nel peggio.

E tutto questo bene diventa un amaro in bocca tremendo.
Non c'è acido, non c'è la minima rabbia.
Non ne ho, e ne sono felice assai.

Probabilmente sono stato stupido, un vero scemo.
Ma qualora ti capitasse per sbaglio, di leggere tutto questo, un pochino vaffanculo te lo dico, per poi fare un piccolo sorriso e scuotere la testa, nella speranza di aver almeno lasciato qualcosa di me, da qualche parte, magari nel dito di un piede, in una unghia (pure rotta se ce l'hai), nell'ultimo centimetro di una doppia punta. 
Tu che "io lavo i capelli quasi tutti i giorni perchè sono più belli".
E io che amavo asciugarteli.
Cacchio era bello, era vomitevolmente semplice e bello proprio per questo.

E più mi sforzo, più lo scola pasta lascia uscire acqua, e più escono fuori cose, e più mi ci ritrovo da solo. In queste cose.
E questo è triste.
Cazzo se lo è.

Pensa, mi sono rimesso anche a scrivere per l'occasione.
E quanto è bello.
Avrei potuto scrivere tanto di meglio per me e per te.
Il condizionale.
Quanto me sta sur cazzo.




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