giovedì 10 settembre 2009

Se non ricordo il titolo di questo post un motivo ci sarà.


Esistono, a volte, delle circostanze particolari che ci portano ad odiare alcune parole, o una soltanto.
Che sia per motivi personali o professionali, il risultato è che quella parola, finisca in un vocabolario particolare, quello in cui non vogliamo mai andare a guardare. Parole come libri; parole che aprono scrigni nascosti nella nostra mente; dette, sentite e ripetute che il solo osare di pensarle ci fa venire voglia di lasciar perdere qualunque cosa si stia facendo. Parole singole, che prima ci sembravano così giuste, opportune e importanti, inevitabilmente se ripetute, riscritte, riutilizzate o già vissute perdono quel valore, ci stancano, si svuotano e collassano su se stesse. La memoria qualche volta ci aiuta, "un lapsus o un vuoto di memoria" sembra uno scherzetto, ma può nascondere (in maniera incosapevole) un rifiuto dovuto a qualcosa che ci infastidisce in quella parola. Questo me lo insegnò la mia prof.sa di inglese al liceo, semplicemente perchè avevo una lieve difficoltà nel tenere fermo in memoria la parola "feeling"; lei sorridendo disse "il fatto che tu non lo ricordi mai, significa che rifiuti l'idea di questa parola".
Certo è strano, da quel momento quella parola la ricordo sempre, e il suo insegnamento è stato più di vita che di grammatica inglese. Bel guadagno.
Utile è trovare il modo di evitare le parole "nere" visto che proprio quando non vogliamo nè dirle nè usarle tantomeno sentirle, ci capitano in continuazione. Come? Roberto Benigni in un film dice che quando una parola ci sta antipatica basta fare finta che non esista e se ci chiedono qualcosa per la quale ci serva il suo utilizzo, basta dire "non lo so" per risolvere senza problemi.
Quindi, qualunque sia la tua parola nera, buona fortuna.
Intanto quella giusta per chidere il discorso è una sola e, guarda il caso, anche questa non mi sta molto simpatica: fine.

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