domenica 14 gennaio 2024

Cactus di domenica.

 

La colpa è mia che non so dire ciao.
A 41 anni ormai si riesce a fare una tara per capire quando c'è qualcosa che davvero o ti viene male o ti viene no, cioè non ti viene.
Nel mio caso, la vittima resta sempre la stessa. La mia persona.

Staccarsi di dosso le cose non è il mio forte, nel bene o nel male, con tutte le loro sfumature.
E ne parlo mentre dietro di me, zitto zitto, ci sta un cactus.
Credo sia l'ultimo scherzo della mia mente, della mia vita e della sua ironia.
Oppure, come cosa più plausibile, è solo l'ennesima sbagliata considerazione dei fatti fatali della mia esistenza.
Oppure, e questo più romantico o patetico, il solo modo di far restare viva un'emozione che di emozione ormai non ha nemmeno più il ricordo. Tanto passata, tanto schiarita, tanto ormai caduta nelle profondità del mio stomaco, dell'intestino, al limite dello sfintere, senza però essere capace di lasciare, appunto, il mio corpo.

Che sia colla o merda, purtroppo non si toglie dal mio corpo.
Una lieve analisi poco superficiale fatta da me medesimo nei momenti morti mi sussurra all'orecchio che non è come mi costringo a pensare. Mi dice, quasi commossa, che niente è vero di quello che sento, ma che la sola necessità che ho è di avere qualcosa che mi faccia compagnia per davvero, in assenza di altro, un cadavere è comunque qualcosa che alla fine può coprire il vento quando fa troppo freddo, o ti lascia mezzo cono d'ombra quando il sole ti infastidisce gli occhi.

Avere la compagnia, o un sogno irrealizzabile è un compagno, un amico dal quale non so separarmi. Non importa il fine, importa che lui sia al mio fianco, importa che lui mi dia uno scopo, che in questo caso, e sono pazzo lo so, è non avere qualcuno da amare veramente. 
No, non è così, l'ho scritto male.
Meglio scritto o sentito è tipo che in fondo ciò che sogni ma che non raggiungi è quasi come avere uno scopo, e se il raggiungimento di un sogno è uno scopo, forse basta avere quello, non il fatto concreto di poterlo raggiungere per davvero:
Quasi come avere voglia di volare, e non voler prendere il brevetto, nascondendosi dietro al fatto che quello che si vuole davvero è librare nell'aria.

Forse così io, credere e aspirare nell'impossibile, solo per avere qualcosa di cui lamentarsi, qualcosa da rinnegare, solo per il fatto che non si riesce davvero a toccare con mano.

La questione è tormentata, meglio spinosa.
Perchè comunque parlavamo di un cactus, quello che sta dietro di me.
Che è piccolo, che è/era un regalo, consegnato con un foglietto piccolo, più piccolo di lui, e su quel foglietto c'era una richiesta, un piccolo grande obbiettivo: Love me.

La mano che lo ha regalato è sparita:
Il cactus è lì.
Io le piante le curo zero, ma mi piacciono i cactus.
Ne ho sei. Lui, il più piccolo, l'ho sempre considerato, dopo le faccende della mano sparita, come il figlio illegittimo, il figlio della serve.

Guardavo gli altri con apprezzamento, parlavo con loro meravigliandomi di loro e di me del fatto che stessero crescendo, che la loro punta diventasse di un verde più chiaro, che facessero (come fanno) delle piccole foglioline.

Lui, anche se non è italiano dirlo o scriverlo, non lo parlavo.
Ci passavo davanti e mi infastidiva, era una presenza scomoda, più spinosa della sua natura.
Sì, per giustizia ha avuto la stessa acqua degli altri, sì, è stato messo in un punto di casa dove l'alternanza luce ombra gli restituiva la sua dignità.
Ma mai un gesto di rispetto e di amore.
Lui è sempre stato come l'ospite di un albergo, ti guardo, ti tratto da cliente, ma il bene è una cosa diversa. E cazzo tutti sanno che le piante queste cose le sentono.

Invece, lui, sto stronzo testardo, di punto in bianco, ha iniziato a cambiare colore sulla punta, si è tirato su, sulla schiena, e senza alcun bisogno di parole d'affetto, lui maledetto bastardo, sta crescendo.

Cresce, in barba a me, al fatto che non ci parlo, alla faccia mia e di quelle due tre volte che mi sono fermato davanti a lui con lo sguardo teso e incazzato, e con gli occhi spalancati gli chiedevo: che cazzo vuoi? Che cazzo ti cresci? Perchè cresci? Perchè lo fai? Perchè non muori come tutto quello che rappresenti? Perchè non muori come tutto quello che è rimasto dietro?

La sua risposta è stata la testardaggine, non curante di me, della mia violenza verbale, lui ha continuato e continua a crescere. Se ne batte i coglioni di me, di quello che voglio e di quello che penso. Si fa sempre più forte delle sue spine che piano piano diventeranno sempre più arroganti. Fottiti, mi ricorda, ogni volta che lo guardo.

Io lo guardo e lo odio ogni giorno di più, una forma d'odio che, come poche cose nella vita, fa il giro. Lui sa che lo odio perchè è la cosa a cui tengo di più in questo momento della mia vita.
Perchè sono fragile e imbecille, perchè penso che lui sia una impossibile speranza, perchè sono un deficiente, appunto, uno che pensa che un cactus regalato, possa essere il filo al quale si lega una storia morta. Ma siccome lui resiste, allora, il mondo, il fato, il destino, cerca di dirmi qualcosa.

Che mi dice? Guarda che anche dal male alla fine ne esce forse ogni tanto qualcosa di buono.
Il cactus cresce, te ne stai prendendo cura, sei capace, sii felice di questo.

Invece penso, come un coglione a tutto tondo, che quel cactus sia un sentimento che unisce due persone, che per quanto lontani e probabilmente con niente più in comune, però si tengono a mente.
Ed è qui che mi sento un demente morto di sogni impossibili.
Uno che i film non ha bisogno di andarseli a vedere al cinema, perchè tanto basta semplicemente guardare quelli che si fa nella testa bacata. Il biglietto è anche gratis.

E quindi provo due sensazioni della medesima intensità, ma diametralmente opposte.

La mia testa chiede letteralmente pietà.
Non ne può più. è sfiancata dal loop, dai medesimi pensieri e domande, che partono da due occhi infinitamente profondi e blu, carezzati da un vento leggero e caldo che portava solo serenità, a questioni grandi come il cosmo, che cambiano gravità in base al pianeta sul quale si poggiano. Il pianetà solitudine, il piabeta felicità, e il suo incompreso e confuso satellite chiamato soddisfazione.

Il cuore. Non fosse il mio ma di un'altra persona, gli farei i complimenti.
Essere scemi a volte porta una resilienza infinita. Per quanto possa essere orientata nel modo sbagliato, la resilienza è davvero una tra le cose più eccezionali che esistano.
Credere, ostinatamente, nel nulla di niente. Come credere in Dio o nel viaggio nel tempo dei buchi neri, essere convinti che esistano gli alieni, essere convinti che ognuno di noi abbia uno scopo. Ecco, fesserie di sto tipo. Eppure rendere lode ad un cuore che non sa nemmeno chi lo possiede dove possa trovare la forza per battere in quel modo, quando, nel silenzio di una giornata, bella o brutta che sia stata, si emoziona per un dettaglio.O meglio il ricordo di un dettaglio,
Le punte nere corvino di capelli lisci, una macchia verde scomposta e piccola sul lato di un'occhio blu profondo oceano, dove solo i pesci più grandi e silenziosi possono nuotare.
Bello, forse no, notare che quella punta di blu è al limite col nero, dove i pesci sono ciechi e per vivere, ogni organismo lì infondo ha bisogno di piccole lucette, anche solo per ricordare di esistere. Perchè quel buio può farti dimenticare chi sei. E non penso sia poi così bello.

Si può sudare amore? Mandarlo via così.
Un cactus non ha bisogno di tanta acqua.

Arido e pungente.
"Tu sei una foresta pluviale, io un cactus".
Si era del tutto vero, ma quello che non hai mai capito, cactus oppure no, e forse è quello il mio più grande errore, è che in una vita dove avevo dato quello che avevo a cose che in fondo erano per me (e non avevo ricavato felicità alcuna in cambio) tu, finalmente, mi stavi per salvare.

L'avevi capito? No, o non credo, o non so.
Per questo alla domanda "ma quanto ha investito in questa cosa?" seguito da un Santa Pace, la risposta è niente, perchè mi era venuto così naturale darti tutto.
Perchè che tu fossi un cactus era evidente, a tratti, e non quando eri vicina, ma un cactus può fiorire, e io ce l'ho messa tutta.

E adesso il piccolo cactus qui dietro cresce, vaffanculo gli ho anche comprato un vasetto più grande, mi so sporcato le mani e ho sporcato il cesso, ho fatto un cazzo di casino e mentre ficcavo le mani nella terra e invasavo mi giravano solo i coglioni a morte. Sì mi girano costantemente i coglioni a morte. 
Sono arrabbiato e spinoso, ma con nessuna delle cose che succedono. Se subisco uno sgarbo, in fondo in fondo, a me non frega un cazzo, perchè la rabbia che ho dentro non lascia spazio per altro, per niente e per nessuno.

Le cose che accadono vanno a sommarsi ad una cosa che non voglio chiamare dolore, la chiamo mancanza, che ho dentro e che vede solo in un cactus il solo modo di renderla tangibile.
Tangibile, bella parola per un cactus, che manco se po toccà.

Passo le ore dei miei pensieri placandomi con consigli in cui non credo:
"Sei possessivo".
Cazzo non è vero.
Evito, per quello che mi riesce, il contatto.
Per il terrore funereo, o vedovale (non so manco se si dica così) che a te succeda la stessa cosa. 
Come se il fatto di non farlo io, muovesse un vento che spinge te a non fare niente.
Ecco, questa è la mia stupidità, essere ancora innamorato di te.
E tu no, e tu no e tu no e tu no. Me lo ripeto tutto il giorno nella speranza di abituarmi, di cambiarmi, di liberarmi, da te e dalle fantasie, dai quei due tre ricordi spiccioli, da me che non riesco a sollevare il culo dalla panchina di marmo della stazione, dal senso di impossibilità di muovermi, e ho ancora un solo stupido rimpianto, il solo, perchè altri no, ma questo sì, perchè non sono salito su quel treno? sarebbero stati 25 minuti in più, di verità, di bene, fammelo dire, di amore vero. Perchè dopo quel treno, una tempesta di vomito e merda ci ha semplicemente travolto, o almeno ha travolte me.
Ho un buco perenne nello stomaco, mi batto una pacca sulla spalla quando realizzo che magari per mezza giornata non mi sei venuta in mente "bravo Diego, hai visto che è possibile". Tu? Lo fai? Forse prima, per me adesso no. Se sei come me, ma dubito, sì. Ma non sei come me.


"Chi ti pensa ti cerca"
"Chi ti ama ti scrive"
"I comportamenti, in caso di assenza della parola, sono una risposta"

"Sarò felice per te qualunque cosa farai".
Bene, io no.

No, non sono felice se ami.
Non sarò felice se amerai.
Volevo essere io. Lo volevo, cazzo, tutto per me.
E non ce l'ho, non lo avrò.

Ho un cactus, che cresce, fin quando vorrà. E mi devo e posso tenere solo quello.

Non c'è goccia, non c'è pillola, non c'è respirazione che tenga.
C'è un cactus, pieno zeppo di spine.

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